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Francesca Sanesi

Società Benefit: un riflessione di Mauro Del Barba


Il promotore della legge sulle Società Benefit condivide con NoiCamera una sua recentissima riflessione.

“Lavoriamo perché i modelli imprenditoriali si modifichino e si orientino alla creazione di valore condiviso attraverso una responsabilità sociale d’impresa sempre più connaturata all’attività economica. Le Società Benefit sono certamente il modello più vicino a questa nostra idea di nuova economia volta al bene comune. Modello nel quale abbiamo creduto da subito”. Così Luigi Sportelli, Presidente della Camera di commercio di Taranto, in apertura dell’evento “La governance della città sostenibile” svoltosi il 26 maggio 2017 presso la Cittadella delle imprese di Taranto nell’ambito del primo Festival dello Sviluppo Sostenibile promosso da ASviS.

Notevole è, infatti, l’impegno di un ampio partenariato operante presso la Camera di commercio sul tema delle Società Benefit, già all’indomani della approvazione della norma (legge n. 208 del 28 dicembre 2015, art.1, commi 376-384): tre incontri pubblici ad oggi, un gruppo di lavoro con competenze tecniche, giuridiche e comunicative, una Guida alla costituzione e gestione, la partecipazione alla neo insediata task force nazionale del Sistema camerale.

Oggi, il senatore Mauro Del Barba, primo firmatario della legge, tre volte ospite della Cittadella delle imprese (l’ultima il 12 maggio scorso per un focus sul Benessere equo e sostenibile quale misura delle policy pubbliche e obiettivo delle imprese), condivide con il nostro blog una sua recentissima ed importante riflessione che, in un quadro più complessivo di cambiamenti oggi in atto in Italia, chiarisce natura e finalità delle SB, collocandole nella giusta prospettiva: una “mutazione genetica” del modello di impresa.

Buona lettura!

di Mauro Del Barba

L’Italia, con la legge di stabilità per il 2016, è il primo Paese Sovrano al Mondo a dotarsi di una normativa, già adottata da trentuno Stati degli Stati Uniti, sulle Società Benefit.

In questo modo il nostro Paese si candida concretamente ad essere un punto di riferimento per il cambiamento virtuoso del modello di sviluppo economico, facendo fronte contemporaneamente ai problemi ambientali (al centro di numerosi provvedimenti e continue attenzioni del legislatore), ai problemi sociali, quali il crescente divario tra ricchi e poveri e le trasformazioni del welfare-state, nonché alla drammatica crisi economica, individuando modelli di impresa che si caratterizzano per la resilienza così da offrire maggiori garanzie per il futuro.

Questi obiettivi, decisamente ambiziosi e a un primo sguardo “fuori scala”, si rendono possibili in quanto le Società Benefit rappresentano nel concreto una “mutazione genetica” del modello di impresa che ben si coniuga con la contemporanea riforma del Terzo Settore e lo sforzo dello Stato di considerare nel proprio bilancio e nella propria programmazione economica grandezze qualitative inedite che han fatto la loro concreta apparizione nel Def 2017 che per primo introduce il Bes (Benessere equo e sostenibile) come indicatore di benessere.

Le Società Benefit (Benefit Corporation in contesto internazionale) nascono come strumento che rafforza e consolida la cosiddetta “strategia B”, ideata e promossa da B lab in tutto il mondo, attraverso la proposta delle B corp. In Italia, per la felice circostanza riformatrice che ha caratterizzato gli ultimi anni di governo, questo strumento si inserisce in un cambiamento che promette di coinvolgere a breve anche l’intero mondo del volontariato e in cui, come ricordato, anche lo Stato comincia a modificare il proprio approccio alle grandezze economiche e a riconsiderare i modelli di sviluppo su cui basare le proprie scelte.

È pertanto opportuno avvicinarsi a questa innovazione fin da subito con la consapevolezza di costituire l’avanguardia di un movimento che è già collaudato e internazionale, per non cadere in valutazioni e analisi che porterebbero inevitabilmente ad approcciare questi nuovi soggetti omologandoli ad altre interessanti novità introdotte dal legislatore negli ultimi anni o a immaginare che l’estensione degli scopi aziendali a benefici comuni costituisca di per sé l’indicazione di particolari (e unici) settori di applicazione «in primis il sociale» o abbia unicamente a che vedere con la cosiddetta “ibridazione”, quell’interessantissima zona di frontiera tra il profit e il non-profit.

In realtà, le Società Benefit rappresentano molto più radicalmente una critica e un tentativo di correzione dell’attuale funzionamento dell’economia di mercato, in particolare del dogma fondamentale che spinge le imprese ad organizzare i propri sforzi, la stessa governance, e dunque le scelte quotidiane, rispetto ad un’unica grandezza da massimizzare: l’utile per gli azionisti.

Non mancano per la verità da decenni sforzi concreti e di successo operati dalle singole aziende per sfuggire alla perversione di questo meccanismo e nel contempo garantire profitti adeguati agli investitori (si pensi alla importante tradizione della Corporate Social Responsibility o alle strategie di Sostenibilità e ai relativi Modelli organizzativi, descritti sempre più spesso nei “Rapporti di Sostenibilità” e nei “Bilanci Sociali”), ma mai prima d’ora tale sforzo di autoriforma ha trovato un sostegno così evidente dal sistema delle regole e un’impostazione così incisiva nella governance aziendale tanto da introdurre una gestione equilibrata nel perseguimento dei plurimi obiettivi in capo agli amministratori.

Si tratta certo di un’occasione di grande visibilità per quelle imprese che da sempre si sforzano di avere questa doppia anima, di recuperare l’originario sogno di chi fa impresa, che non è fare soldi, ma offrire servizi che migliorino la qualità della vita propria e di tutti i portatori di interesse. In fondo è una vecchia questione, relegata a rango inferiore più per l’incapacità dell’economia di misurare il valore non monetario del prodotto che per una reale e profonda convinzione dei poteri taumaturgici del mercato libero e sfrenato.

Oggi il contesto di fiducia è cambiato, come sono aumentate le nostre conoscenze. Mi capita spesso di dire, girando il Paese e incontrando gli imprenditori: «non lo sentite anche voi un sinistro scricchiolio?». Questa non vuole essere l’espressione di un timore o peggio una paura, gli effetti collaterali del modello di sviluppo sono del resto sotto gli occhi di tutti. Invece, è e vuole essere un invito all’ottimismo: abbiamo fatto tantissimo fin qui, ora è venuto il tempo di fare meglio, di chiedere all’imprenditore e al mercato di condividere maggiori responsabilità, di competere come prima, ma con una dimensione in più, quella del beneficio comune.

Le Società Benefit sono normali società di persone o di capitali, comprese le cooperative, che oltre allo scopo di dividere gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse (legge 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 376).

Aggiungere al tradizionale oggetto sociale (che permane) uno o più obiettivi di beneficio comune comporta un cambio profondo nella responsabilità degli amministratori che sono tenuti a gestire la società in modo da bilanciare l’interesse dei soci, il perseguimento delle finalità di beneficio comune e gli interessi dell’ambiente e delle comunità in cui operano (legge 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 380).

Modificando in tal modo il proprio statuto, ovvero aggiungendo all’oggetto sociale gli obiettivi di beneficio comune che ne arricchiscono le finalità, le Società Benefit si impegnano a dimostrarne l’impatto sul modello di gestione dell’impresa stessa, sui propri lavoratori, sull’ambiente e le comunità in cui operano. In particolare le scelte e le modalità operative saranno tese a garantire il profitto e contestualmente gli obiettivi di beneficio comune. In questo modo le Società Benefit contribuiscono a diffondere un modello che restituisce agli imprenditori la loro vocazione originale, e piacciono anche ai consumatori, o meglio ai portatori di interesse, come dimostra il numero di imprese che vi hanno aderito, in costante aumento, e l’apprezzamento ricevuto dal mercato. Ma per quali ragioni la Società Benefit piace così tanto?

Le Società Benefit hanno il pregio di tradurre in realtà le istanze della contemporaneità. Il consumatore di oggi è cambiato, è interessato alla storia del prodotto e alla sua realizzazione, all’impatto ambientale e sociale del ciclo produttivo. Non è più una persona passiva, ma attiva, che vuole poter scegliere e vuole poter scegliere il meglio e ciò che è più adatto non solo ai propri gusti, ma anche alle proprie convinzioni e ai propri ideali.

Inoltre chi acquista il prodotto o servizio è consapevole, sensibile, interessato ai cambiamenti del mondo che lo circonda, alla natura e al territorio, sceglie prodotti sostenibili con il minor impatto ambientale e sociale, in linea con i propri valori etici e morali. Si informa, e soprattutto vuole fidarsi del prodotto che compra e della società che lo vende. La Società Benefit è in grado di soddisfare le esigenze del consumatore più attento e di dare fiducia alle persone in virtù dei propri comportamenti trasparenti e misurabili.

La prassi fin qui sviluppatasi, soprattutto nelle B corp in tutto il mondo, mostra come gli obiettivi di beneficio comune non costituiscono un vincolo alla produttività e al profitto, ma uno stimolo verso

un cambiamento positivo e profittevole.

Perché in Italia?

L’Italia si è dimostrata terra molto fertile per la proposta delle Società Benefit potendosi giovare di caratteristiche peculiari e storiche che denotano una naturale affinità con questo modello. La dimensione delle imprese, ma soprattutto la loro naturale relazione con il territorio, di cui i distretti sono una delle dimostrazioni più evidenti, attestano per le imprese italiane un’innata propensione al modello “benefit”. Decenni di tradizione molto avanzata di “responsabilità sociale d’impresa” hanno inoltre consentito di creare esplicite esperienze anche nelle imprese di grandi dimensioni che si richiamano ai principi delle Società Benefit. A ciò si possono ben aggiungere importanti contributi di alcuni poli universitari del Paese nel diffondere i principi dell’economica civile e i paradigmi dell’economia circolare. Tutto ciò ha reso e rende l’Italia di oggi un continuum con il Paese in cui nel dopoguerra Adriano Olivetti si domandava: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti?».

Ci si potrebbe infine domandare come possa una norma di legge così sintetica e introdotta repentinamente ambire a risultati tanto importanti e strategici. Va detto che il testo si presenta volutamente aperto, non segue i canoni formali e le definizioni iperdettagliate a cui spesso si è abituati. Lo fa volutamente, lasciando in alcuni casi aperti diversi canali interpretativi e differenti modalità d’azione, per consentire a imprese anche molto diverse tra loro (micro imprese come multinazionali sono interessate dagli stessi commi della legge) di utilizzare lo stesso modello, lasciando all’originalità dei singoli imprenditori il compito di calare i principi di legge nel modello imprenditoriale prescelto. Così il piccolo imprenditore può, una volta compresa la radicalità della scelta, recarsi dal notaio e assumere lo status di Società Benefit nel giro di un pomeriggio, mentre la grande multinazionale, già abituata alla formalizzazione dei processi, può trovare vie ampie e più strutturate per arrivare al medesimo cambiamento. Anche il linguaggio utilizzato dal legislatore, proprio per favorire questa adesione quasi personale, si è scelto che fosse più ispiratore che descrittivo, pur indicando con inequivocabile chiarezza le peculiarità di una Società Benefit e le potenti ricadute sulla governance e sulla responsabilità degli amministratori. Anche laddove alcune scelte potevano essere effettuate senza pregiudicare l’adesione a tutte le imprese italiane, si è preferito lasciare aperti alcuni temi, sia di ordine generale (il beneficio comune deve essere attinente all’attività caratteristica dell’impresa o aggiuntivo e separato dalla stessa?), sia di ordine particolare (la relazione annuale va depositata con il bilancio? Va redatta secondo particolari formalismi?), di nuovo allo scopo di individuare le migliori modalità sulla scorta delle esperienze sul campo e non su una presunzione meramente teorica e astratta operata dal legislatore.

Sarà fondamentale cogliere da questi primi “pionieri benefit” italiani le migliori pratiche, continuando a coltivare un confronto multidisciplinare e operativo come meritoriamente è avvenuto in questi primi mesi di adozione della legge e nel contempo tenere aperto il confronto con gli altri Stati che si stanno dotando di analoga legislazione. Abbiamo il vantaggio di essere i primi e di non essere soli in questa sfida avvincente che, ci auguriamo, potrà concorrere a rilanciare nel mondo l’idea dell’Italia che più ci piace.

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